I cambiamenti climatici: i trattati internazionali, le leggi Europee ed Italiane e l’opinione pubblica

Dopo aver analizzato le cause e le conseguenze dei cambiamenti climatici, le Nazioni Unite capirono che era necessario agire per scongiurare il peggioramento delle condizioni climatiche e ambientali del pianeta.

Si era reso necessario obbligare gli Stati al rispetto dell’ambiente, limitando le emissioni di gas serra e altri gas nocivi, ma al tempo stesso senza recare troppi danni all’economia e alla produzione industriale.

A tale scopo, a partire dal 1992, furono indette Convenzioni internazionali per ratificare trattati a difesa dell’ambiente.

Dal 1995 in poi, le Nazioni Unite tengono ogni anno conferenze sui cambiamenti climatici, per poter valutare i progressi e le nuove sfide su questo tema.

La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici

Tra i primi provvedimenti contro il riscaldamento globale, nel 1992 le Nazioni Unite tennero a Rio de Janeiro la prima Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, nota anche come “Accordi di Rio”.

Questo accordo fu ratificato da tutti i 196 Paesi facenti parte delle Nazioni Unite.

Gli Stati firmatari degli “Accordi di Rio” furono suddivisi in tre gruppi:

  • Paesi industrializzati, ex Paesi socialisti e Unione Europea;
  • Paesi industrializzati non facenti parte del primo gruppo;
  • Paesi in via di sviluppo.

I Paesi in via di sviluppo sarebbero potuti diventare volontariamente “industrializzati” una volta raggiunti i necessari requisiti economici.

Tuttavia questi Paesi non erano tenuti a rispettare gli accordi fino a che le nazioni industrializzate non avessero investito su di loro con denaro e mezzi tecnologici, e il progresso tecnologico era subordinato alla lotta alla povertà e alle diseguaglianze sociali.

L’ obiettivo principale era quello di ridurre le emissioni di gas serra delle nazioni industrializzate entro il 2000, e le parti firmatarie erano d’accordo sul fatto che le varie nazioni avessero responsabilità differenziate.

La ratifica obbligava i Governi a perseguire l’obiettivo non vincolante di ridurre le emissioni.

Il trattato entrò in vigore nel 1994, e da quel momento iniziarono i lavori per negoziare il Protocollo di Kyoto.

Il Protocollo di Kyoto

Il Protocollo di Kyoto del 1997 fu la conseguenza degli “Accordi di Rio” del 1992, e introdusse l’obbligo, giuridicamente vincolante, di ridurre le emissioni di gas serra (mentre gli accordi del 1992 non erano vincolanti).

Il protocollo entrò in vigore nel 2005, e fu ratificato da 192 Paesi.

Gli Stati Uniti, tuttavia, pur avendo firmato il protocollo, non lo ratificarono mai.

Il trattato obbligava le nazioni a ridurre le emissioni almeno dell’8% rispetto ai livelli registrati nel 1985, suddividendo il programma in due periodi, 2008-2012 e 2013-2020.

Gli Stati firmatari furono suddivisi in due gruppi, “Allegato B” (che comprende Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Svizzera, Australia, Giappone, Ucraina, Bielorussia, Nuova Zelanda e Federazione Russa) e “non-Allegato B” (tutte le altre nazioni).

I Paesi aderenti al protocollo di Kyoto avrebbero potuto servirsi di meccanismi flessibili per poter ridurre le emissioni al minimo costo possibile ed ottenere “crediti di emissioni”.

I “crediti di emissioni” sono generati dalle emissioni evitate grazie alla realizzazione di progetti di sviluppo sostenibile, e si misurano in “tonnellate di CO2 equivalente”.

Ad esempio, una nazione industrializzata realizza un progetto di sviluppo sostenibile in una nazione in via di sviluppo, come ad esempio una centrale a energia solare, e grazie a questa centrale la nazione in via di sviluppo ha evitato di emettere 300 tonnellate di CO2 durante l’anno: queste 300 tonnellate di CO2 sono i crediti di emissione guadagnati dalla nazione industrializzata, che quindi avrà diritto a sua volta di rilasciare 300 tonnellate di CO2 nell’ambiente, oppure rivendere i crediti di emissione sul mercato.

Il protocollo di Kyoto prevede tre meccanismi flessibili per l’acquisizione dei crediti di emissioni:

  • Clean Development Mechanism (Meccanismo di sviluppo pulito): consente ai Paesi industrializzati di realizzare progetti nei Paesi in via di sviluppo, sia di sviluppo sostenibile che di sviluppo economico e sociale, generando crediti di emissione per i Paesi che investono nei progetti;
  • Joint Implementation (Implementazione congiunta): consente ai Paesi industrializzati di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas serra in un altro Paese dello stesso gruppo e di utilizzare i crediti derivanti, assieme al paese ospite.
  • Emissions Trading (Scambio di emissioni): consente lo scambio di crediti di emissione tra i vari Paesi; un paese che abbia conseguito una diminuzione delle proprie emissioni di gas serra superiore al proprio obiettivo può così cedere tali “crediti” a un paese che, non abbia raggiunto i propri obiettivi in fatto di riduzione delle emissioni.

Lo scopo dei meccanismi flessibili è quello di ridurre le emissioni di gas serra ai minimi costi possibili, salvaguardando sia l’ambiente che gli investimenti economici.

Era prevista anche un’estensione del protocollo di Kyoto, che ne avrebbe prolungato la validità fino al 2020, ossia l’ “emendamento di Doha al protocollo di Kyoto”, firmato nel 1997, che avrebbe avuto efficacia a partire dal 2012.

L’emendamento tuttavia non è mai entrato formalmente in vigore poiché era richiesta la ratifica da parte di almeno 2/3 degli Stati (144 nazioni), ma soltanto 124 lo ratificarono effettivamente, tra cui l’Italia.

Suscitò moltissime polemiche nell’opinione pubblica e nelle Nazioni Unite la mancata ratifica del trattato da parte degli Stati Uniti, causata dal timore che l’ accettazione di un simile trattato potesse recare loro ingenti danni economici.

Nonostante la decisione del governo centrale statunitense, alcuni stati degli USA spontaneamente si impegnarono a rispettare il protocollo di Kyoto, promuovendo iniziative e leggi per ridurre l’inquinamento.

Suscitò polemiche anche il caso del Canada: questo Paese ratificò il protocollo di Kyoto, impegnandosi a ridurre le emissioni di gas serra del 6% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2012, non riuscendo tuttavia a raggiungere il proprio obiettivo, ma addirittura aumentandole del 17%.

Al fine di evitare le pesanti sanzioni economiche previste in caso di inadempienza agli obblighi di riduzione delle emissioni, alla fine del 2011 il Canada ritirò la propria adesione dal protocollo di Kyoto.

Critiche al protocollo di Kyoto

Il protocollo di Kyoto ha tuttavia ricevuto molte critiche per diversi aspetti.

Suscitò molte perplessità il fatto che Paesi in via di sviluppo come la Cina e l’India fossero esenti dall’obbligo di ridurre le proprie emissioni, nonostante siano responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra; questo è uno dei motivi che spinse il presidente americano George W. Bush a non ratificare il trattato.

Il protocollo poi aveva rivolto quasi tutti gli sforzi sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica, trascurando le altre sostanze nocive, come gli idrofluorocarburi e l’ozono.

Altre critiche sono il fatto di aver prefissato obiettivi a breve termine, mentre la soluzione al problema del riscaldamento globale richiede decenni, se non addirittura secoli.

I “crediti di emissione” suscitarono moltissime critiche per il fatto che non avrebbero affatto ridotto le emissioni di gas serra, ma avrebbero stimolato la vendita di emissioni al miglior offerente, il quale avrebbe, così, acquistato il diritto di continuare ad inquinare.

Emissioni di CO2 nel 2013.
Emissioni totali ed emissioni pro capite di CO2 (espressi in tonnellate a persona) di vari Paesi del mondo nel 2013, secondo i dati del Database delle Emissioni per la Ricerca Atmosferica Globale (EDGAR) della Commissione Europea (fonte: Wikimedia Commons).

L’ Accordo di Parigi

Nel corso degli anni si sono svolte molte conferenze sui cambiamenti climatici, e sono stati valutati gli obiettivi raggiunti e i nuovi mezzi attuati per contrastare questo fenomeno che col passare del tempo hanno causato (e causano) danni sempre maggiori ed evidenti.

Dopo il fallimentare Accordo di Copenaghen del 2009, i cui obiettivi e presupposti furono giudicati dalla comunità internazionale come “inefficaci” e “insufficienti” si giunse, nel 2015, all’ Accordo di Parigi, entrato in vigore nel Novembre 2016 e firmato da 195 Stati, ma ratificato soltanto da 185 di questi paesi.

Gli obiettivi principali dell’accordo sono tre:

  • scongiurare l’aumento di 2 gradi della temperatura globale previsto per il 2100, prefissando come soglia limite l’aumento di 1,5 gradi;
  • diminuire le emissioni di gas serra;
  • finanziare le fonti di energia alternative.

Ogni nazione ha l’obbligo di redigere un dettagliato rapporto sui propri sforzi e obiettivi raggiunti in tema di riduzione delle emissioni di gas serra.

A differenza del protocollo di Kyoto, gli obiettivi da raggiungere non sono stabiliti dalle Nazioni Unite, ma ogni Stato ha la facoltà di stabilire i propri, senza obblighi giuridici (tranne quello di redigere rapporti annuali).

Non ci sono distinzioni tra nazioni industrializzate e in via di sviluppo, e chi ratifica il trattato dovrà contribuire alla salvaguardia dell’ambiente, mentre il protocollo di Kyoto prevedeva tali obblighi solo per le nazioni industrializzate.

Secondo il principio delle “comuni ma differenti responsabilità e rispettive capacità”, ogni nazione deve dare un contributo in base alle proprie emissioni di gas serra e alle proprie capacità economiche, differenziando gli obiettivi e cercando di creare piani più efficaci per la riduzione dell’inquinamento.

Come accaduto a Kyoto, gli Stati Uniti si ritirarono dall’ accordo, causando sdegno nella comunità internazionale.

Critiche all’Accordo di Parigi

Alcuni studi condotti dalla prestigiosa rivista Nature hanno dimostrato che al 2017 gli Stati industrializzati non avevano ancora implementato le politiche di Parigi, o che lo stavano facendo in maniera troppo limitata.

Secondo i critici, la mancanza di vincoli legali alla riduzione delle emissioni darebbe la possibilità ai Governi di non rispettare il trattato, mettendo così in dubbio l’efficacia dell’Accordo di Parigi.

Per sopperire a questo problema, le nazioni industrializzate chiesero l’intervento di enti internazionali per il controllo delle emissioni di gas serra, mentre le nazioni in via di sviluppo, a loro volta, chiesero ed ottennero che ogni stato verificasse autonomamente le proprie emissioni.

Non è stata fissata una data certa entro la quale le emissioni di CO2 dovranno cessare o diminuire in modo consistente, con la conseguenza che i vari Stati potrebbero impiegare troppo tempo per ridurre l’inquinamento atmosferico.

Un’altra questione che ha suscitato molti dubbi è quella delle tratte internazionali di aerei e navi, perché nel trattato non è chiaro a quale nazione attribuire tali emissioni.

Leggi europee sulla salvaguardia ambientale

Per adempiere agli impegni presi con la ratifica dei trattati internazionali, l’ Unione Europea ha promulgato leggi e direttive a salvaguardia dell’ambiente, definendo i termini entro i quali gli obiettivi debbano essere raggiunti.

La direttiva 406/2009 del Consiglio Europeo, obbliga gli Stati membri, entro il 2020, a ridurre le emissioni di gas serra di una certa percentuale rispetto alle emissioni registrate nell’anno 2005: l’Italia deve ridurre le proprie del 13%.

La direttiva 28/2009 promuove l’uso delle fonti rinnovabili di energia (eolica, solare, geotermica, biomasse, ecc.), obbligando gli Stati membri a soddisfare una percentuale del proprio fabbisogno energetico mediante fonti pulite entro il 2020: il nostro Paese deve raggiungere il 17%, ma in realtà le fonti rinnovabili italiane compongono circa il 40% del fabbisogno energetico totale.

Inoltre, nonostante la mancata entrata in vigore dell’“emendamento di Doha”, l’Unione Europea, prolungato il periodo di applicazione del protocollo di Kyoto fino al 2020, si impegna a rispettarne le disposizioni, mediante la decisione 1339/2015.

Queste direttive servono a raggiungere l’obiettivo 20-20-20, cioè la riduzione del 20% dei gas serra rispetto alle emissioni registrate nel 1990, il 20% dell’energia europea proveniente da fonti rinnovabili e il miglioramento dell’efficienza energetica del 20%, entro il 2020.

Entro il 2030, l’Unione Europea si impegna a ridurre le emissioni del 40% rispetto al 1990, col 32% dell’energia totale proveniente da fonti rinnovabili e il miglioramento del 32,5% dell’efficienza energetica.

Una volta analizzati gli obiettivi preposti dall’Unione Europea, ci si domanda, oggi, quanti e quali di questi siano stati effettivamente raggiunti.

L’ Agenzia Europea dell’Ambiente è l’ente che si occupa di monitorare l’impatto delle azioni umane sulla natura, e in un rapporto del 2017 ha stabilito che, sebbene le emissioni di gas nocivi si siano grandemente ridotte negli ultimi decenni, nelle aree metropolitane la qualità dell’aria è bassa, e le concentrazioni di gas nocivi superano i limiti stabiliti dalle leggi.

Tra questi gas ci sono l’ozono (il quale, sebbene sia indispensabile nell’ozonosfera, è dannoso per le forme viventi se respirato), il biossido di azoto e il particolato, che causano malattie respiratorie e gravi danni all’apparato respiratorio, se inalati per periodi prolungati.

Emissioni di CO2 nel 2015.
Emissioni di CO2 delle nazioni più industrializzate. “EEA” è l’ Unione Europea (fonte: Wikimedia Commons).

Leggi Italiane a protezione dell’ambiente

Anche a livello nazionale esistono leggi e disposizioni approvate per proteggere l’ambiente e l’ecosistema, oltre all’applicazione delle normative europee e al rispetto dei trattati internazionali.

Una delle prime norme italiane in materia di protezione dell’ambiente è la legge 1497 del 1939, che tutela i paesaggi naturali, così come i giardini, le ville e i parchi che “si distinguono per la loro non comune bellezza”, sanzionandone il danneggiamento.

Nel 1948, con la promulgazione della Costituzione Italiana, all’articolo 9 è prevista la “tutela del paesaggio”, e si stabilisce che: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

Nel 1966 venne approvata una delle prime norme in tema di inquinamento atmosferico, la legge 615, detta anche “legge antismog”, che disciplinava le emissioni delle automobili e degli impianti termici e industriali, i quali non avrebbero dovuto superare una certa soglia di emissioni, espressa in Kilocalorie l’ora (la quantità variava in base alla grandezza delle città e al tipo di impianto preso in considerazione), pena l’ammenda pecuniaria.

Nel 1986 la legge 349 istituì il Ministero dell’Ambiente, che tuttora si occupa della tutela dell’ambiente.

Nel 1994 con la legge 61 vennero istituite le ARPA (Agenzie Regionali per la Protezione dell’Ambiente), che hanno compito di monitorare, elaborare e diffondere dati sullo stato di salute dell’ambiente delle varie regioni.

Nel 2008 grazie alla legge 133 venne istituito l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), che ha funzioni analoghe a quelle delle ARPA, e coopera con l’Agenzia Europea dell’Ambiente e altri organi internazionali.

In ambito penale, nel 2015 venne aggiunta una sezione al Codice Penale: il Titolo VI-bis, intitolato “Dei delitti contro l’ambiente”, che estende le fattispecie dell’articolo 452 (i “delitti contro la salute pubblica”).

L’articolo 452-bis punisce con la reclusione da due a sei anni e una multa da 10mila a 100mila euro “chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: delle acque o dell’aria, o di porzioni estese […] del suolo e del sottosuolo […]”.

L’articolo 452-ter punisce con la reclusione chiunque cagioni lesioni a terzi in seguito ad azioni di inquinamento.

L’articolo 452-quater prevede il reato di “disastro ambientale”, ossia “l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema”.

Per far fronte ai cambiamenti climatici già in corso, nel 2016 il Ministero dell’Ambiente ha approvato la “Strategia Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”, al fine di ridurre al minimo i danni derivanti dai cambiamenti climatici, proteggendo la salute dei cittadini e preservando il territorio, oltre a promuovere l’istituzione di un “Forum permanente” che si occupi di campagne di informazione per i cittadini, e di un “Osservatorio Nazionale”, che individui le priorità territoriali in materia di salvaguardia ambientale.

Tutto ciò dimostra che anche l’Italia si sta impegnando ad ostacolare le cause e gli effetti dei cambiamenti climatici e dell’ inquinamento.

Le associazioni ambientaliste, i partiti politici e Greta Thunberg

Esistono centinaia di associazioni ambientaliste che si battono in difesa dell’ambiente e della preservazione della natura, ma tra le più antiche e conosciute ci sono il WWF e Greenpeace.

Nel 1961 venne fondato il WWF (Worldwide Wildlife Fund, fondo mondiale per la natura), il quale sin dagli anni ’90 ha iniziato ad occuparsi anche di questioni riguardanti l’inquinamento e i cambiamenti climatici.

Alla fine degli anni ‘60, a seguito di una protesta contro alcuni test nucleari statunitensi eseguiti in Alaska, fu istituita Greenpeace che, come il WWF, inizialmente lo scopo dell’associazione era quello di salvaguardare la biodiversità, salvo poi concentrarsi, intorno ai primi anni ‘90, anche sulle tematiche dello sviluppo sostenibile, delle energie pulite e dei cambiamenti climatici.

In Italia, nel 1980, nacque Legambiente, con gli stessi obiettivi delle altre associazioni ambientaliste. Tra l’altro, questa organizzazione, in seguito al disastro di Černobyl’ del 1986, l’anno seguente, nel 1987, promosse il referendum per vietare in Italia l’utilizzo dell’energia nucleare.

A cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 in molte nazioni furono fondati i partiti ambientalisti (cosiddetti “partiti verdi”) i quali, assieme alle associazioni, si fanno promotori di proposte di legge per ridurre l’inquinamento atmosferico e la protezione della biodiversità, oltre ad organizzare campagne di informazione per i cittadini; questi partiti, con nomi, leader e slogan diversi, tutt’ora sussistono.

L’ azione delle associazioni ambientaliste e dei partiti politico-ambientalisti ha avuto enorme influenza sulle società in ogni parte del mondo, e pertanto attualmente si assiste ad una sempre maggiore consapevolezza e sensibilità verso le tematiche ambientaliste e i cambiamenti climatici.

Sono soprattutto i giovani ad essere preoccupati per l’ambiente, perché saranno loro ad ereditare il pianeta e dovranno far fronte ai cambiamenti climatici e alle loro conseguenze.

Attualmente in Europa si tengono manifestazioni in difesa dell’ambiente, guidate dalla studentessa svedese Greta Thunberg, che per prima ha deciso di indire uno “sciopero scolastico” per il clima: questa iniziativa ha suscitato l’attenzione dei media, dei politici e perfino delle Nazioni Unite.

Greta Thunberg ha tenuto un discorso alla Conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite a Katowice (Polonia), nel quale ha evidenziato come i cambiamenti climatici stiano causando estinzioni e perdita di biodiversità animali e vegetali. Recentemente ha avuto un incontro anche con Papa Francesco, col quale ha brevemente discusso del futuro del pianeta.

Le iniziative di Greta, grazie anche ad una diffusa risonanza mediatica, hanno ancora una volta evidenziato i problemi legati ai cambiamenti climatici, che saranno destinati ad aggravarsi velocemente se tutta l’umanità non porrà immediato riparo, costringendo governanti e potenti a ratificare e dare pronta esecuzione a tutti quei trattati, accordi, risoluzioni, direttive ed emendamenti che hanno sottoscritto, evidentemente senza alcuna convinzione. Anche se siamo ormai quasi al limite del disastro, fortunatamente il ripristino del nostro pianeta è ancora possibile, ma con molto, molto impegno e buona volontà da parte di tutti.

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